Quello di ‘antropocene’ è un termine che fino a qualche anno fa conoscevano in pochi e che oggi è invece molto diffuso e utilizzato per spiegare il mondo contemporaneo e le problematiche che ad esso si legano. È questo il nome che viene dato alla nostra epoca, per descriverla in termini geologici. La sua peculiarità sta quindi già nel lemma che la connota: quando parliamo di Pleistocene, di Paleolitico, di Neolitico o di Olocene ci riferiamo a un evo della storia del mondo che viene caratterizzato per essere più o meno recente rispetto agli altri. Il suffisso ‘-cene’ deriva infatti dal greco kainós, che significa ‘recente’, laddove i prefissi ‘paleo-’ e ‘neo-’ indicano rispettivamente la più antica e la più recente tra le età della pietra (lithos). In questa classificazione, il termine antropocene fa la differenza perché esso, in una tassonomia fino a quel momento puramente temporale e quantitativa, introduce un elemento qualitativo, rappresentato dal suffisso ‘antro-’, che evidentemente sta per ‘uomo’. L’uomo è dunque il fattore principale di caratterizzazione dell’era attuale, quello che più la connota su un piano non culturale, non politico, ma addirittura geologico.
La tecnologia come una glaciazione
Dall’analisi del nome ‘antropocene’ si comprende anche quanto questa classificazione sia intrinsecamente legata a una denuncia, a un grido d’allarme: l’uomo è diventato a tal punto invadente rispetto all’ambiente – il pianeta Terra – che abita da condizionarne lo sviluppo geologico, come in passato, per intenderci, hanno fatto le glaciazioni o il meteorite che verosimilmente ha portato all’estinzione dei dinosauri. L’impatto della nostra presenza sul pianeta che ci ospita è pari se non superiore a quello di catastrofici eventi naturali che hanno portato a una radicale modificazione della vita su di esso; detto in termini espliciti, siamo ingombranti e distruttivi. Più precisamente, l’impatto dell’uomo è calcolato sulla base della sua capacità di interazione e di modificazione della natura. È evidente che quando si parla di uomo in questo contesto non si sta facendo riferendo alle nostre facoltà emotive, né per esempio, all’uso che abbiamo sviluppato del linguaggio, ma a quei tratti della nostra intelligenza che ci hanno condotto a uno smisurato ed esponenziale sviluppo tecnologico. In altre parole, la nostra è l’era in cui l’uomo influisce sull’ambiente in forza di dispositivi tecnici sempre più potenti e pervasivi. In questa definizione si annidano tuttavia almeno un paio di paradossi che proviamo a descrivere.
L’età dell’uomo e della sua scomparsa
Innanzitutto, è evidente che la prepotenza della tecnologia non concerne solo ciò che sta attorno a noi, ma che, con uno sconcertante effetto boomerang, rischia di rivolgersi anche contro noi che abbiamo messo in moto il processo. È quello che, come accennato in precedenza, viene surrettiziamente denunciato quando anche solo si nomina l’antropocene: l’impatto sulla natura non è visto come una forma positiva di interconnessione con essa, ma piuttosto come un intervento invasivo e violento, che rischia di portare molte specie viventi, e non da ultima anche quella umana, alla scomparsa. Si corre quindi il paradossale pericolo di veder scomparire dalla faccia della Terra l’uomo proprio mentre egli è all’apice della sua espressività, nel momento cioè in cui più che in qualsiasi altro tempo egli ha potuto esprimere le proprie potenzialità. L’età dell’uomo potrebbe quindi paradossalmente coincidere con l’età della scomparsa dell’uomo. Si tratta per fortuna ancora di un’ipotesi e non già di una certezza; anzi, per fugare il rischio che diventi realtà, vale la pena dar voce anche al secondo paradosso.
Un ottuso intelletto?
Almeno un’altra considerazione emerge infatti a margine del nome stesso di antropocene e concerne il significato che diamo al concetto di ‘umano’: se, come detto, con questo aggettivo ci si riferisce all’intelletto che ha portato ai progressi tecnologici di cui tutti beneficiamo e se tuttavia associamo a questa evoluzione cognitiva della specie e ai suoi prodotti il pericolo della nostra stessa rovina, stiamo dichiarando al contempo che la nostra intelligenza è formidabile e che essa è in grado di creare danni smisurati. Qualcosa in questo quadro non torna: come può un’intelligenza definirsi tale se si rivolge contro lo stesso soggetto che ne è il possessore? Come si può riporre fiducia e ammirazione verso una facoltà, sapendo allo stesso tempo che essa genera la degenerazione della specie presso la quale si manifesta? Più che di fiore all’occhiello dell’umano, se l’intelletto si limitasse a quanto descritto, bisognerebbe parlare di scelus, di una disgrazia più che di un dono. Il paradosso ci pone quindi di fronte a un’alternativa: un’opzione è quella di chiudere i conti con la retorica dell’uomo-animale-razionale, del pensiero come nostro vantaggio e punto di forza, e con ciò sbarazzarci perfino della filosofia come esercizio superiore delle nostre facoltà. L’uomo, in questo senso, va visto come un animale stupido a causa della sua intelligenza (!), e da questa è bene guardarsi per limitare i danni che da essa posso drammaticamente derivare.
O un’intelligenza intelligente?
Esiste tuttavia e per fortuna anche una seconda strada, non per forza in discesa, che si apre al bivio del suddetto paradosso e che, tutt’al contrario, prevede di riporre rinnovata speranza sulle nostre facoltà cognitive. Se crediamo davvero di essere dotati di intelligenza, se rimaniamo stupefatti di fronte a quello che siamo fin qui riusciti a plasmare, creare, nel mondo che abitiamo – dai grattacieli di Manhattan alle missioni su Marte, dalle Piramidi alle nanotecnologie –, allora dovremmo essere altrettanto convinti che quello stesso intelletto ci salverà dalla degenerazione senza ritorno, ci aiuterà a cambiare rotta prima che sia troppo tardi, ci renderà sempre più consapevoli dei rischi e quindi ci consentirà di ingegnarci verso nuove soluzioni. Può sembrare un discorso utopistico, ma è forse altrettanto ingenuo pensare come necessario il legame tra ragione e catastrofe, tra progresso ed epilogo dell’umano. Certo è, invece, che continuare ad affermare l’ineluttabilità di questa connessione non aiuta ad aprire la rotta per strade alternative, ma ci condanna giocoforza a una stupida e dissennata apocalisse, un disastro che riguarderà, innanzitutto, la rappresentazione di noi stessi come esseri pensanti.
Questo articolo è pubblicato anche su ‘Scenari. La rivista di approfondimento di Mimesis edizioni‘.