Il dilemma della scelta
Esistono due mondi: uno è quello attuale, l’altro racchiude tutto ciò che possiamo definire passato. Il primo mondo è quello della vita quotidiana, nel quale cresciamo, cambiamo e siamo costretti a scendere a compromessi con i nostri desideri. Questo mondo si dispiega lungo una linea temporale irreversibile e unidirezionale. Le trasformazioni a cui siamo inevitabilmente soggetti, che rendono unica ciascuna delle nostre vite, avvengono attraverso complicate sequenze di scelte, più o meno esplicite, che ci portano a optare di volta in volta per una direzione piuttosto che per un’altra. Da decisioni insignificanti come cosa mangiare a pranzo a scelte più profonde e con conseguenze ben più rilevanti, come quelle legate al lavoro, alla residenza o al partner, il nostro cammino individuale si traccia mediante la continua esclusione di qualcosa a favore di qualcos’altro. Questo processo segue il principio logico più elementare, ‘indiscutibile’ secondo la celebre enunciazione di Aristotele, ovvero il principio di non contraddizione, per cui «è impossibile che la stessa cosa, a un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto» (Arist. Met., IV, 1005 b 19-20, tr. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 143-145). Aristotele ci spiega che non possiamo trasferirci a Manhattan e, allo stesso tempo, rimanere a Seul, dove siamo nati. Questa affermazione, che è un’ovvietà ovvietà sul piano della razionalità logica, si traduce in uno stile di vita al quale non possiamo sottrarci, anche quando il processo di scelta si fa combattuto e doloroso. Lo spiega bene Kierkegaard:
Paradossale è la condizione umana. Esistere significa “poter scegliere”; anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensì la miseria dell’uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza, ma il suo permanente dramma. Infatti egli si trova sempre di fronte all’alternativa di una “possibilità che sì” e di una “possibilità che no” senza possedere alcun criterio di scelta. E brancola nel buio, in una posizione instabile, nella permanente indecisione, senza riuscire a orientare la propria vita, intenzionalmente, in un senso o nell’altro. (Kierkegaard, Aut aut, tr.it. di C. Fabro, Bompiani, Milano 2013, ed. dig.)
Il passato che non trascorre
Nonostante l’esistenzialismo ci spieghi che la libertà di cui godiamo non ci garantisce automaticamente la felicità, raramente ci rendiamo conto di vivere in un mondo governato dalla logica della non contraddizione. Tale realtà sembra così evidente che non riteniamo necessario metterla in discussione: le nostre giornate vi si conformano perfettamente, senza lasciarci sospettare l’esistenza di un’altra dimensione di senso. Certamente Freud ha chiarito che queste regole non si applicano all’inconscio, come dimostrato da sogni e lapsus e dall’ampia gamma delle manifestazioni nevrotiche. Tuttavia, benché gli effetti di realtà prodotti dalle contraddizioni dell’inconscio siano consistenti e tangibili, restiamo legati all’idea che si tratti pur sempre del derivato di rappresentazioni psichiche, ovvero di pensieri e ideazioni che, in quanto immateriali, possono presentare incongruenze, senza che ciò comprometta le regole che governano i fatti e gli enti mondani.
In una pellicola che non lascia spazio all’elemento onirico né al surrealismo fantastico o fantascientifico, Past lives ci rammenta due cose fondamentali: innanzitutto, che il secondo mondo, che comprende il passato, è vero quanto quello in cui il tempo scorre linearmente. In secondo luogo, che quest’altra dimensione di senso non è confinabile alla semantica del ricordo o della nostalgia, che ne neutralizza la cogenza relegandola alla sfera di ciò che è irrevocabilmente trascorso e concluso. Il passato è costituito dall’enorme varietà di scelte che avremmo potuto compiere e che, per le ragioni più disparate, non abbiamo intrapreso: sono le nostre past lives, vite che ci lasciamo alle spalle, nel punto cieco del nostro sguardo, come zavorre che ci ancorano al presente senza però rientrare nel raggio d’azione di quest’ultimo. Na Young non ha un passato ingombrante che l’ha costretta a grandi cambiamenti: il suo presente è il risultato di una serie di scelte non drammatiche né particolarmente straordinarie, che l’hanno traghettata dall’infanzia all’età adulta. Geograficamente, da Seoul all’East Village; sul piano anagrafico, al nome occidentalizzato di Nora Moon; e, in termini relazionali, da un’affinità per un coetaneo durante la preadolescenza al matrimonio con un americano una volta cresciuta. In questa evoluzione, anche la credenza nel destino (In-Yun), con i suoi intrecci imprevedibili e le sue stratificazioni, viene progressivamente secolarizzata e liquidata come “una cosa che dicono i coreani per sedurre qualcuno”.
“E se anche questa fossa una vita passata…”
Ciò che Nora non può prevedere è però l’impatto dell’inaspettato ritorno di Hae Sung nella sua vita presente: il ragazzino con il quale aveva allacciato un delicato legame infantile di simpatia si materializza, ormai adulto, all’interno di un ordine esistenziale che però aveva espunto quel personaggio diversi anni prima. Questa apparizione non destabilizza la protagonista dal punto di vista sentimentale: non sembra infatti che la sua scelta di stare con l’attuale compagno e marito venga davvero messa in discussione. Nora sembra patire, piuttosto, il fatto stesso che un livello di In-Yun, cioè un frammento del passato – e di sé in quel passato – possa ritornare, nonostante fosse già uscito di scena. La presenza, benché temporanea, di Hae Sung a Manhattan e la sua pervicace fedeltà ai sentimenti provati nell’infanzia non costringono Nora a rivedere il percorso compiuto fino a quel momento, ma portano allo scoperto una scomoda verità: decidersi per qualcosa non significa eliminare l’opzione scartata, né tracciare un cammino – sia esso rettilineo, ondulato, curvo, spezzato – con un punto di partenza ben definito e una direzione univocamente determinata.
Se le past lives ritornano, talvolta, è perché il mondo del passato, immutabile, non è separato dalla realtà del presente, che invece evolve continuamente, distanziando ciò che è stato da ciò che è ora, appena prima di subire l’ennesima, inevitabile trasformazione. “E se anche questa fosse una vita passata e fossimo già qualcos’altro l’uno per l’altra nella nostra prossima vita? Chi pensi che saremo allora?”, chiede Hae Sung a Nora mentre si stanno salutando. Ma, posto in chiusura del film, il suo dubbio risuona come una verità ineluttabile, più che come un vero interrogativo. Non c’è bisogno di fantasticare su vite future e passate, perché quella che stiamo vivendo qui ed ora è già il risultato complesso dell’intreccio di piani temporali concomitanti che sfidano il nostro bisogno di ordine e direzione – di non contraddizione. Il vero enigma non è chi saremo nella prossima vita, ma chi scegliamo di essere in questa, sapendo che le scelte non fatte ci accompagnano, silenziose, in tutte le decisioni che invece prendiamo.
Questo articolo è stato pubblicato nella mia rubrica ‘Philodiffusione‘ del periodico Loescher ‘La ricerca’.