Dallo sfondo del panorama filosofico contemporaneo si staglia con sempre maggiore nitidezza la figura di un pensatore di origini coreane naturalizzato tedesco, Byung-Chul Han. I suoi interessi sono molto ampi e spaziano dal buddhismo zen all’eros, da un’indagine sui riti a una critica al neoliberismo. Nonostante la varietà delle questioni considerate, a leggere in successione i suoi libri (sottili, densi e divulgativi, nel senso non dispregiativo del termine) ci si accorge di alcuni temi che ricorrono tra l’uno e l’altro e di una serie di note di fondo da cui sono accomunati. Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, pubblicato quest’anno da Einaudi, ha il vantaggio di considerare esplicitamente uno di questi aspetti centrali della sua riflessione, cioè la sua interpretazione della rivoluzione digitale.
Provando a riassumere un ragionamento godibile, appassionante ma non facilmente schematizzabile, diremo che il fulcro tematico dal quale si dipana la sua analisi converge verso il concetto di informazione. Più precisamente si deve parlare di informazioni, perché si tratta di una massa il cui ordine di grandezza plurale è fondamentale a comprenderne la natura: viviamo in un mondo completamente informatizzato, nel quale le non-cose (cioè le informazioni stesse, intese come entità immateriali ma reali) hanno preso il sopravvento sulla concretezza degli enti, che sembra essere divenuta insignificante. Byung-Chul Han prima decreta sorpassato il concetto marxiano di feticismo delle merci, e poi mostra con un esempio la validità del suo giudizio: siamo circondati da oggetti di ogni tipo, eppure non sviluppiamo un attaccamento ‘transizionale’, per attingere al lessico psicoanalitico, verso di essi. Perfino lo smartphone, oggetto che più di qualsiasi altro risulta oggi indispensabile, un complemento di esistenza da cui non possiamo prescindere, perfino il telefonino, ci fa notare l’autore, viene personalizzato pochissimo. Non è significativo per quello che materialmente esso è, ma per la sua capacità di memoria, la sua potenza: il feticismo è verso la sua quantità (di pixel, di velocità, di applicazioni, o anche di soldi spesi per il suo acquisto) non per la sua essenza, esso conta come varco d’accesso – alle molteplici funzioni che performa – e il suo essere anche un ente di realtà appare quasi come un accidente, un inconveniente che, per il momento, non è possibile aggirare. Oltre a rendere evidente quanto poco ormai teniamo in considerazione le cose in quanto cose, lo smartphone rappresenta anche lo strumento per eccellenza che ci permette l’accesso alle non-cose, alle informazioni, verso cui abbiamo sviluppato una vera e propria dipendenza. L’autore ci definisce ‘infomani’, esseri schiavizzati dal bisogno crescente di notizie, che sono additive e non narrative, che si contano e non si raccontano, che creano confusione e con ciò eludono l’accesso a qualsivoglia sapere. Ci crediamo liberi di scegliere, ma si tratta di un’illusione – possiamo solo scegliere di consumare – e di una raffinata evoluzione (perversione) del capitalismo neoliberista, che non opprime la libertà ma la sfrutta, in modo che sia il consumatore stesso a legarsi spontaneamente ai propri ceppi.
Le cose che scompaiono non sono solo gli enti nella loro concreta materialità, ma anche quegli elementi che ancorano al reale, che intrecciano gli uomini tra loro e con l’ambiente: le relazioni lasciano il posto alla smania di ‘fare esperienze’, cioè di collezionare momenti epici più che legami continuativi, le prassi impegnative vengono condannate come disutili e noiose, il silenzio spaventa e di fronte al vuoto si avverte l’irresistibile impulso di colmarlo a suon di intrattenimento, di diversivi e distrazioni. La soluzione prospettata e praticata dall’autore è estrema e prevede il rifiuto totale dell’attuale configurazione del mondo. Questa via è senza dubbio di difficile applicabilità, ma bisogna forse mettere in dubbio anche la sua effettiva efficacia: criticare il presente può voler dire negarlo? Come in casi analoghi, la forza della polemica perde mordente laddove la pars construens del ragionamento ribadisce di fatto le critiche della pars destruens o procede a ritroso, come se l’ordine del tempo potesse venire riavvolto a prima degli eventi così dettagliatamente descritti per le loro catastrofiche conseguenze. Invece, bisogna ammettere e fare pace con il fatto che il secondo principio della termodinamica vale anche per la storia e, così come non possiamo sperare di riuscire a far rientrare il dentifricio nel tubetto dal quale è stato spremuto, allo stesso modo non sarà buttando i nostri telefonini che cambieremo il corso di questa rivoluzione o che ne arresteremo l’avanzata. Leggere questo libro però è importante, perché ci ricorda che se vogliamo continuare ad esistere non possiamo lasciare completamente andare il legame con la realtà. A questo proposito, Lacan ha detto che per un soggetto non c’è incontro peggiore che con il proprio reale: la constatazione, nella sua crudezza, ci aiuta a comprendere perché siamo così facilmente propensi a perdere questo contatto e allo stesso tempo ci invita ad accettare la sfida – dell’introspezione, della conoscenza, dell’essere umani – perché si tratta pur sempre di qualcosa di nostro – ‘il proprio reale’ – che riguarda quindi quello che profondamente siamo e possiamo diventare.
Questo articolo è stato pubblicato anche su Philodiffusione, la rubrica che curo all’interno della rivista ‘La ricerca’ di Loescher editore.