Di zecche e di pietre nel film di Bong Joon-ho
Divenire-parassita
Nell’epocale volume Mille piani, anche a partire dalle ricerche condotte da von Uexküll, Gilles Deleuze e Felix Guattari ci informano tuttavia che essere-animale è ben diverso dal divenire-animale: se nell’un caso si tratta di adeguarsi in modo irriflesso alla propria natura e venire con ciò inseriti in un più complessivo quadro tassonomico, nel secondo si tratta di forgiare, giorno dopo giorno, una singolarità lontana dalla codificazione maggioritaria e dalle strategie iper-classificatorie di dominio, che, mentre descrivono, etichettano e chiudono a inedite conformazioni di senso e di vita. Posto dunque che nel film i parassiti sono ovunque, la seconda domanda che ci poniamo è: c’è qualcuno tra loro che non soltanto è, ma diviene-parassita, che compie cioè un cammino di emancipazione e di ricerca di sé che lo conduce ad essere diverso non tanto da sé, ma dalla rappresentazione consuetudinaria che gli viene attribuita? Crediamo di sì e che questa persona sia Ki-taek, il capofamiglia dei Kim. Egli resta zecca, parassita, dalla prima all’ultima scena del film: in apertura notiamo che è l’unico della sua famiglia che, quasi mosso da ‘orgoglio parassitario’, non si scompone durante la disinfestazione delle strade che, per forza di cose, invade anche il suo spazio abitativo, mentre in chiusura, prendendo il posto dell’‘uomo del sottosuolo’ realizza pienamente il proprio destino, condannandosi e consacrandosi a parassitare vite altrui.
Qual è il piano?
Eppure una trasformazione avviene in lui a proposito di quello che è il suo tratto caratterizzante, la sua cifra identitaria, che coincide con l’ossessione di “avere un piano”. “Qual è il piano?” è la domanda che gli porge la moglie quando, all’inizio, scoprono di non avere più la connessione Wi-Fi a disposizione. E Ki-taek prontamente risolve la situazione con un espediente. “Dimmi qual è il piano”, chiede con ammirazione e desiderio a suo figlio quando comprende una possibilità di sviluppo nell’ingresso di Ki-woo presso la famiglia Park. “Ma tu non ce l’hai un piano?”, si meraviglia quando capisce che l’‘uomo del sottosuolo’ Geun-sae non ha progettato come venire a capo della condizione in cui si trova. E sono i suoi stessi figli che, dopo il precipitare della situazione, insistono per sapere qual è, alla luce di quei tragici sviluppi, il suo nuovo piano. Ki-taek è zecca anche e proprio perché ossessivamente indaffarato ad escogitare un piano, a risolvere in modo inconsueto una situazione, a trovare l’espediente vincente. Nel racconto intitolato Salto della pulce, Primo Levi scrive che
fra tutti gli animali sono proprio i parassiti quelli che dovremmo ammirare per l’originalità delle invenzioni scritte nella loro anatomia, nella loro fisiologia e nelle loro abitudini.
(P. Levi, Il mestiere altrui, Einaudi, Torino 1998, 2a ed.)
I parassiti sono tali anche grazie e in forza del fatto che inventano nuove forme d’essere, come se escogitare nuovi piani e aprire nuove strade fosse un elemento intrinseco al loro essere, qualcosa come il loro marchio di fabbrica. Ki-taek però non si limita ad essere parassita – egli lo diviene, nel momento in cui al figlio che, appunto, gli chiede quale sia il piano, risponde: “Il piano è non avere un piano. Altrimenti la vita non va mai nella direzione sperata. Se non hai un piano nulla può andare storto”. L’uomo-del-piano comprende che il piano migliore è quello di vivere nell’assenza di un piano, di fuoriuscire dalla violenza della taxis, della predisposizione aprioristica di un reale che sfugge a qualsiasi previsione e catalogazione preventiva. Bisogna venir fuori dall’omogeneizzazione della maggioranza, anche da quell’istinto maggioritario che è in noi e che ci porta a chiudere in schemi la vita, che però per definizione non è ordinabile in categorie e linee di sviluppo anticipabili. Con l’omicidio del padrone, egli firma quindi la sua stessa condanna, che coincide però anche con il suo riscatto e la sua emancipazione. Lui, divenuto finalmente libero nel suo divenire-parassita.
La roccia al suo destino
Il figlio Ki-woo invece sembra non aver compreso la lezione impartitagli dal padre e fino alla fine resta ancorato alla speranza di liberarlo attraverso la messa a punto dell’ennesimo “piano”. Forse però, da una scena apparentemente marginale, possiamo immaginare che le parole del padre abbiano sortito, ancora in modo inconscio e germinale, un certo effetto. Ci stiamo riferendo al momento in cui Ki-woo restituisce il daiza all’acqua dalla quale era stato prelevato. Suseok è l’arte giapponese, presto importata anche in Corea, di fornire un basamento ai daiza, cioè alle pietre prelevate in natura, che, senza essere ulteriormente lavorate, vengono poi esposte come vere opere d’arte oppure utilizzate come complemento alla meditazione. Nel film la catena di eventi della trama viene in qualche modo scandita dalla presenza di questo MacGuffin di hitchockiana memoria, questo oggetto apparentemente privo di alcun ancoraggio rispetto al resto della sceneggiatura, che pure si stacca dal fondo e finisce per occupare un posto in primo piano sulla scena. ‘Su-’ sta per ‘acqua’, mentre ‘-seok’ indica la pietra che, infatti, è da un fiume o comunque da un bacino idrico che viene inizialmente individuata e levata. Tornando a utilizzare una categoria deleuziana diremo che il gesto di Ki-woo è un atto di felice de-territorializzazione di qualcosa che era stato precedentemente territorializzato, imbrigliato nelle secche di un ozioso godimento estetico o contemplativo. In questo contesto, il suseok rappresenta il ‘piano’ per antonomasia, il decidersi del destino di un ente entro una direzione stabilita a prescindere dall’imprevedibilità dell’ente stesso. Riponendo in acqua il daiza, Ki-woo rompe l’incantesimo e l’illusione del piano, lasciando la roccia – e magari anche se stesso – al suo destino e, con ciò anche al suo divenire.
Leggi la prima parte della recensione qui.
Questo articolo è stato pubblicato nella mia rubrica dal titolo Philodiffusione del periodico Loescher ‘La ricerca‘.