Università Ca’ Foscari, 29-31 maggio 2024
XXII Convegno annuale della Società italiana di Estetica
Intervento dal titolo: La poetica performativa di Kafka
Come spesso accade con i racconti di Kafka, anche In der Strafkolonie (1914) intreccia molti temi e livelli di senso. Si tratta di poche pagine, dalle quali tuttavia possono essere tratte diverse considerazioni. Innanzitutto sul tema della giustizia, anche se sarebbe più corretto parlare di ingiustizia, visto che al centro della narrazione c’è un congegno progettato come pena per i condannati, senza tuttavia che essi siano stati preliminarmente sottoposti ad alcun grado di giudizio.
Il principio secondo cui decido è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione. […] Il capitano è stato da me un’ora fa, io ho scritto il suo rapporto e subito vi ho accluso la sentenza. Poi ho fatto metter l’uomo in catene. È stata una cosa semplicissima.
(Kafka, Nella colonia penale)
Questa è la spiegazione, alquanto sbrigativa, dell’ufficiale preposto all’attivazione dell’apparecchio mortale. In questo universo narrativo, l’accusa coincide sempre con la condanna, che a sua volta combacia con un’atroce tortura, visto che la pena prevede che il prigioniero subisca una performance che ricorda gli eccessi dell’azionismo viennese o le esibizioni, altrettanto discusse, di Gina Pane. La condanna, in caratteri pressoché illeggibili, non sarà infatti letta bensì tatuata sul corpo del condannato, inferendogli un dolore che gli farà perdere i sensi prima e la vita poi.
Se il Foucault di Sorvegliare e punire spiega la nostalgia, che l’ufficiale confessa, verso i tempi in cui ai supplizi assistevano folle di persone, il dio di Borges che “affidava il suo messaggio alla pelle viva dei giaguari” (La escritura del Dios,1949) ci aiuta nella decifrazione anche simbolica del messaggio che la macchina tatua sul corpo dei condannati.
È forse però possibile convocare anche le macchine celibi di Duchamp, tanto quanto quelle desideranti di Deleuze e Guattari (e Lindner) per superare la soglia della semantizzazione dell’opera di Kafka e provare a concepire la sua poetica in termini macchinici e perfino algoritmici. Nell’anno di celebrazione del centenario dalla morte di questo gigante del pensiero, vale forse la pena di riflettere sulla sua estetica in termini più strutturali che contenutistici, e chiedersi come funziona la macchina kafkiana, piuttosto che arrovellarsi attorno a cosa essa significa. Veniamo così a scoprire che si tratta di meccanismi complessi e autarchici, che hanno una causa e sortiscono degli effetti in un mondo che è alieno a quello della realtà di cui facciamo esperienza quotidiana e che forse realizza nel modo più compiuto l’alterità che è propria della letteratura, dove tutto funziona, ed è performante, anche senza una referenza esterna al piano dell’immaginario e della metafora.
Che errore aver detto l’(es). Ovunque sono macchine, per niente metaforicamente: macchine di macchine, coi loro accoppiamenti, colle loro connessioni. […] Così si è tutti bricoleurs; a ciascuno le sue macchinette. […] Qualcosa si produce: effetti di macchine, e non metafore
(Deleuze e Guattari, L’anti-Edipo, p. 3)